Scrive di: Stefano Malatesta

Intervista su: “Il Grande Mare di Sabbia” (2001)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Nel suo precedente Il cammello battriano, Stefano Malatesta — notissimo anche per gli articoli di cultura e viaggio che scrive per "Repubblica" — aveva letteralmente preso per mano i lettori facendo loro da guida sui favolosi itinerari della Via della Seta. Adesso con Il Grande Mare di Sabbia spalanca davanti a loro come un vero libro aperto, ricco di suggestioni ma anche di disincanto e di sottile humour, i deserti africani e arabi, sulle tracce di eventi mirabili, civiltà scomparse, culture monastiche, guerre antiche e moderne, comuni fatti di vita quotidiana, personaggi come Laslo von Almasy, Lawrence d'Arabia, Charles Doughty e tanti altri, che a quei deserti hanno letteralmente dedicato la vita. Abbiamo parlato con lui del suo nuovo libro.

D. Dalle “waste land” dove si snoda la Via della Seta al “grande mare di sabbia” dei deserti africani e arabi. Quale di questi ambienti ti ha affascinato di più? E perché?

R. Tutti i deserti sono affascinanti e tutti possono diventare “noiosi”, come dice chi non è abituato a guardare un immenso vuoto, che si rivela per chi ha occhio un immenso pieno. Ora mi vengono in mente due deserti, abbastanza simili tra loro. Il primo è il deserto orientale egiziano, che si estende tra il Nilo e il Mar Rosso. Svegliarsi la mattina presto in un posto qualsiasi a sud di Hurgada, lungo la costa, quando ancora il sole non ha riscaldato le sabbie bianche che rendono le acque di una trasparenza di giada verde-azzurra e aspirare a pieni polmoni l'aria che arriva dal Sinai e che nella traversata del Mar Rosso si è impregnata leggermente di salsedine e poi partire verso l'interno e arrivare allo uadi Dokhan, dove s'innalza il Mons Porphyrites, che manda bagliori violetti perché è fatto di porfido rosso, la pietra riservata agli imperatori romani. . . Il secondo è il deserto sempre egiziano, ma occidentale, che va dal Nilo alla Libia ( Il deserto del “Paziente Inglese”) e in particolare il tratto dall'oasi di Siwa, la leggendaria oasi del tempio di Giove Ammone all'oasi di Bahariya. Una volta la guida-autista che mi accompagnava lungo questa splendida, abbastanza facile pista, volle fermarsi in una raduna disseminata di pietre grandi e piccole, alle quali non avevo fatto molto caso. Solo quando la guida cominciò a sistemarle in cerchio come riparo dal vento per il focolare che stava accendendo, mi accorsi che queste pietre avevano forme meravigliose, create milioni di anni fa dai cataclismi tellurici e primordiali che sconvolsero la terra e alcune sembravano delle sculture di Brancusi, altre erano identiche alle sculture cicladiche del museo Goulandris di Atene, altre ancora ad opere di pura avanguardia. La natura aveva anticipato le rivoluzioni artistiche o i rivoluzionari avevano copiato.

D. Da che cosa è nata questa pulsione ai viaggi in territori tanto “complicati”?

R. I deserti non sono complicati, sono solo diversi dalle campagne alle quali noi europei siamo abituati. Un tuareg dell'Hoggar si ritrova nelle sue montagne, come io mi posso ritrovare, metti, tra Pienza e Monticchiello, nel senese. I beduini che accompagnarono Wilfred Thesiger nelle sue famose traversate del deserto più temibile che ci sia, il Rub. el-Khali, nell'Arabia Saudita, rimanevano gli splendidi predoni che l'esploratore inglese aveva conosciuto — e di cui si era innamorato — solo all'interno del deserto. Quando uscivano dalle Sabbie, come le chiamavano, e rimanevano qualche giorno nei paesi più vicini abitati in modo stanziale, s'ingaglioffivano subito, perdendo quelle qualità che li rendevano senza uguali. Chiedere a qualcuno che ama viaggiare perché mai è andato nel deserto è come chiedere a uno che ha la passione della guida automobilistica perché è così felice di essersi messo al volante di una Ferrari.

D. Più di 25 anni fa Alberto Moravia ha scritto (cito a memoria) che il deserto sarebbe molto più bello visto dall'alto (volandoci sopra) che da dentro. E anche Vita Sackville-West ha scritto che è monotono, sempre uguale. Non pare proprio tu possa condividere simili opinioni.

R. Moravia in un certo senso aveva ragione, se voleva dire che il deserto va visto anche dall'alto per poterlo apprezzare, soprattutto il deserto di montagna. Laslo von Almasy, il conte ungherese, avventuriero gentleman, esploratore e spia, modello per il “Paziente Inglese”, la cui vita è stata molto più interessante e eccitante di come è stata raccontata in un libro e in un film mediocri, si serviva di un monoplano chiamato Moth IV per andare alla ricerca della mitica oasi di Zerzura e dei suoi tesori, di cui avevano parlato viaggiatori arabi medievali. Quanto alla Sackville- West, la signora rientrava nella categoria dei quasi ma non veramente tali eccentrici inglesi, che dovevano dire sempre qualcosa di originale o almeno in controcorrente. Ma già era stata preceduta da un compatriota più spiritoso che aveva definito il Sahara: “Un maledetto uadi dopo l'altro”.

D. Infatti i tuoi “deserti” sono un brulicare di vita, vicende umane, esperienze, ricerche, avventure. E anche di Storia, oltre che di mille “storie”. E di humour. . .

R. Ho cercato d'interpretare le multiformi anime del deserto attraverso storie molto differenti tra loro, che hanno l'aspetto formale delle storie di viaggio, ma spesso finiscono altrove, come quella intitolata “Il Grande Uomo di Niafunqui, lo sceicco bianco e gli spiriti del Niger”. Ma naturalmente sta ai lettori giudicare

D. Quali sono gli “scrittori di viaggio” che porti con te (anche soltanto idealmente, e oltre al mitico Charles Doughty di cui già parli nel libro)?

R. Non porto mai con me solo un libro-talismano, come faceva Chatwin con The Road to Oxiana di Robert Byron, ma un'intera libreria, perché durante i viaggi vengo preso dalla sindrome di dover leggere subito, senza aspettare, tutto quello che è stato scritto sui paesi che sto attraversando. In questo senso mi considero non un alato, leggiadro e desiderato viaggiatore, provvisto di un sacco, un paio di scarponcini e i famosi carnet moleskine, com'era Chatwin, ma un topo di biblioteca che si è lanciato forse al di là delle sue possibilità (parlo di possibilità fisiche), appesantito da bauli inzeppati di libri, intento sempre a leggere soprattutto le note.

D. Scrivere di viaggi è un po' ripeterli alla luce della razionalizzazione “a posteriori”?

R. Ci sono, tradizionalmente, due tipi di scrittori di viaggio. Quelli che viaggiano per scrivere e quelli che scrivono per viaggiare. Io penso di amare i viaggi nella stessa misura di come mi piace scrivere. Quanto alla razionalizzazione, se l'intendiamo come il tentativo di capire tutto quello che di più significativo ci passa davanti agli occhi, questa non solo è ammessa, ma necessaria per non dare al viaggio una dimensione unicamente visiva, come di cose viste e automaticamente trascritte. Ma se si fa passare per razionalizzazione una riduzione ai minimi termini di una realtà ben più complessa e a volte incomprensibile e irriducibile, allora siamo davanti ad un prodotto scadente, come minimo e possibilmente anche davanti a una truffa.

D. Viaggi non ancora fatti ma che ti riprometti di fare?

R. Mi sta aspettando a oltre tremila metri in Equador un paese che si chiama Vilcabamba, teatro dell'ultima rivolta degli Incas contro la feroce dominazione spagnola, guidata da un discendente degli imperatori-dei, chiamato Tupac Amaru. I tupamaros si sono ispirati alle sue gesta.

D. Consigli di “vero” viaggio agli aspiranti viaggiatori da parte di un “viaggiatore appassionato” (come sei stato definito)?

R. Non esiste un consiglio-principe: ce ne vorrebbero molti. Vorrei però evitare i luoghi comuni come “Non partecipate mai ai viaggi di gruppo” o “Nel suk tirate sul prezzo” e parlare dei medicinali che sarete costretti a portare con voi. Se andate in zone malariche evitate un prodotto esiziale che si chiama “Lariam” che può dare degli effetti collaterali tremendi e a lungo termine e più in generale controllate tutte le informazioni contenute nelle confezioni. Questa dei medicinali e delle malattie alle quali potreste andare incontro è un'area che viene in genere trascurata o trattata con troppa leggerezza. Ricordatevi che in certi paesi rischiate la vita.

Stefano Malatesta “Il Grande Mare di Sabbia”, Neri Pozza
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